A Marco
Era il lontano 2005 quando ci conoscemmo tra gli uffici di quel posto che non ho mai amato tanto. Io ero poco più che una ragazzina, abbastanza stupida anche ai tempi, direi. Non so bene come, né perché, ma ci siamo trovati subito. Un’intera giornata lì dentro valeva la pena anche solo per sentire una sola delle tue battute che ti venivano fuori in modo così naturale, chessò, in pausa pranzo. Negli anni successivi, abbiamo sempre continuato a sentirci. Questo, data la mia famigerata incostanza, è accaduto grazie a te. Che ogni tanto mi scrivevi, mi dicevi: “Allora, com’è messa la tua agenda per domani?” E io, tante volte, rimandavo. Qualche volta anche tu. Ma poi, in qualche modo, si riusciva a trovare il modo e il tempo, e ci si vedeva. Quelle sere con te rimarranno per me indimenticabili. Non sono una di quelle persone che si ricordano tutte le parole dette e sentite, i gesti, i posti. Ma io ricordo l’atmosfera. Ogni volta che ti ho visto era una continua risata, dal primo, all’ultimo momento in cui siamo stati insieme. Perché tu eri così. Raccontavi una cosa anche banale, ma come la raccontavi tu c’era da pisciare dal ridere. A vederti così, nessuno avrebbe pensato che invece avevi avuto una vita niente affatto facile. Ogni tanto mi aggiornavi anche sui tuoi, non piccoli, problemi di salute. E anche quelli, erano racconti sui quali eri il primo a ridere sopra. Una sera di dicembre, me lo ricorderò sempre, sono scesa di casa con il mio solito ritardo, e tu mi aspettavi in macchina con dei regali. Regali! Una crema per le mani, e un paio di calze. “Questo Natale ho pensato alle tue...estremità”, hai detto. “Mani e piedi, perché adesso fa davvero freddo”. Un’altra volta parlando di non so chi hai detto che questo ti aveva veramente “trifolato i coglioni”. Trifolato. Avrò riso per delle ore su quel verbo. E non ci crederai mai, lo uso tutt’oggi quando capita. E, ogni volta, immancabilmente, mi vieni in mente tu. Mi chiedevi sempre come mi andavano le cose, gli esami prima, i miei vari lavori poi. Quando passavo un esame, mi dicevi che eri "orgoglione" di me. Raccontavi, come al solito, molto poco di te, ma quel che bastava per farmi capire il tuo stato d’animo. Un’altra volta eravamo in macchina e mi ha telefonato mia madre. Abbiamo avuto una lunga discussione, dopo di ché avevo messo giù il telefono e l’avevo lanciato dritto davanti a me...ed ha sfiorato il tuo parabrezza. Mi ricorderò sempre la tua espressione di quel momento. Preoccupato, preoccupatissimo per la macchina, che grazie al cielo non si era fatta niente, ma non hai osato dirmi nulla. E allora, con uno sguardo colpevole, ti ho chiesto scusa. Ti piaceva Battiato, il sudoku, il tuo lavoro, la palestra, le moto. Adoravi tua sorella ed eri affezionato al tuo cane, Devil, con cui andavi a correre. Parlavamo spesso della tua relazione, visto che io ti raccontavo tutto delle mie. Le volevi bene, questo era chiaro. La chiamavi Thelma, con me. Ti avrò chiesto mille volte il nome, ma tu nulla: continuavi a chiamarla con questo nome in codice, così strano, così simpatico. E adesso non ci credo. Non saprò mai più come si chiamava davvero. Poco fa sono stata al tuo funerale. Che dire. Ti immaginavo lì, in mezzo a noi, a vedere tutto. Non mi sembra ancora vero che l’ultima volta che ti ho visto eravamo tranquilli e felici in un dehors di piazza vittorio, e la volta dopo eri dentro a quella bara così fredda e silenziosa. Ti immaginavo vicino a me, che commentavi tutto ciò che accadeva in chiesa oggi. Eri sempre pronto a farmi ridere, per me vedere il tuo nome che mi chiamava al telefono voleva dire che stavo per essere travolta da una serie di battute che mi avrebbero messa di buonumore. Perché era così che mi sentivo ogni volta dopo averti sentito. Ed è così che ti ricordo oggi. Ti voglio bene, Marco. Non ricordo l’ultima volta che te l’ho detto. Ma quel che conta, è che sono sicura che tu lo sai.Con infinito affetto ti stringo citandoti ancora una volta: “ti mando un abbraccio formato famiglia”.
Mia
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